Il fenomeno del victim blaming – ovvero la colpevolizzazione della vittima che consiste nel ritenerla parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto – è un meccanismo subdolo che agisce in maniera spesso inconsapevole sia per chi lo compie sia per chi lo subisce. Di fatto, porta a un processo circolare che si autoalimenta nel tempo: la rappresentazione di un episodio di violenza condiziona ancor più la percezione travisata del successivo evento traumatico e così via. La vittima subisce una “vittimizzazione secondaria” (o “post-crime victimization”), una seconda aggressione da parte delle istituzioni (magistratura, classe dirigente, media, opinione pubblica variamente intesa).
Secondo i dati ISTAT del 2019, gli stereotipi più comuni sono quelli secondo i quali una donna ha sempre una qualche responsabilità quando subisce violenza sessuale:
- Il 39,3% della popolazione si dichiara molto o abbastanza d’accordo con l’affermazione “le donne che non vogliono un rapporto sessuale riescono a evitarlo”. Questa idea è più spesso degli uomini (41,9% contro 36,7%) e delle persone con livello di istruzione basso e medio basso. Tra i due generi, le differenze sono accentuate tra i più giovani. Ritiene che “le donne che non vogliono un rapporto sessuale possono evitarlo” il 41,4% dei ragazzi di 18-29 anni contro il 32,4% delle loro coetanee, e tra i più istruiti (il 37,9% dei laureati contro il 28,9% delle laureate).
- Il 23,9% della popolazione si dichiara molto o abbastanza d’accordo con l’idea che il modo di vestire possa provocare una violenza sessuale. Le quote sono simili tra uomini e donne ma molto differenziate per età e livello di istruzione. Il 32,4% delle persone tra 60 e 74 anni condivide questa affermazione contro il 15,4% dei giovani di 18-29 anni, così come il 39,6% di chi non ha nessun titolo di studio o ha la licenza elementare contro il 10,7% dei laureati.
- Il 15,1% della popolazione crede che se una donna subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o è sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.
Victim blaming: quali funzioni?
Attribuire la colpa alla vittima è una sorta di difesa, di rassicurazione sociale nel possibile esercizio di un controllo sugli eventi: se, ad esempio, la probabilità di subire una violenza sessuale è maggiore quando questa è associata a determinate caratteristiche della vittima, il non possedere quelle particolarità costituisce una sorta di riparo dal reato.
Questa interpretazione del mondo e dei comportamenti umani, fondata su un importante bias sociale, rimanda a due modelli teorici precisi:
- Il “modello del mondo giusto”, secondo cui le persone hanno la necessità di percepire di vivere in un mondo in cui gli avvenimenti negativi accadono solo a chi li merita.
- Il “modello dell’ipotesi dell’attribuzione difensiva”, per cui le persone elaborano le informazioni sociali inferendo nessi causali, assegnando continuamente responsabilità agli autori coinvolti.
In altre parole, la scarsa somiglianza percepita con la vittima rassicura chi adopera il nesso causale caratteristica-colpa.
Victim blaming: come si manifesta
Episodi di vittimizzazione secondaria sono frequenti sia nel contesto pubblico che nelle relazioni private delle donne che subiscono violenze sessuali e maltrattamenti dal proprio partner. Per quanto riguarda il primo, dalla diffusione mediatica e giornalistica di fatti di cronaca alle sentenze dei Tribunali si leggono dettagli della vita privata della donna che ne influenzano la credibilità e minimizzano la gravità della violenza compiuta: le routine quotidiane, le scelte di abbigliamento, le consuetudini sessuali, la provenienza culturale, l’aspetto fisico delle interessate (…) continuano ad essere esibiti come elementi che attenuano la responsabilità penale degli imputati. Stereotipi sessisti, affermazioni colpevolizzanti, interpretazioni di eventi che creano personaggi caricaturali (es. la ragazza facile, la bestia, il barbaro, la giovane sensibile…) e che indicano quanto sia ancora difficile affrontare il fenomeno nella sua complessità a livello sociale e culturale.
Un esempio nel contesto giudiziale
Un caso di risonanza nazionale ha riguardato una giovane donna peruviana di 22 anni che ha subito nel 2015 una violenza sessuale perpetrata da due conoscenti, mente uno la stuprava l’altro controllava che non vi fossero testimoni. I due ragazzi sono stati condannati in primo grado di giudizio a cinque e tre anni di carcere mentre i Giudici della Corte d’Appello hanno ritenuto che la donna non fosse attendibile. Il contenuto della sentenza tuttavia non si è limitato a valutare lo svolgimento del precedente Processo e la credibilità della ragazza, come riportato di seguito: «In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata ‘goliardica’, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di ‘Vikingo‘, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida».
In queste righe è possibile leggere differenti esempi di colpevolizzazione della vittima:
- il fatto che fosse stata la donna ad organizzare l’incontro accrescerebbe la sua responsabilità nei fatti, minimizzando il ruolo dei due imputati e rispondendo al bias culturale secondo il quale un reato è più giustificato nel momento in cui sia stata la vittima a mettersi in situazione di pericolo, in modo sia consapevole che inconsapevole;
- la definizione del momento del presunto reato come “nottata goliardica” contribuisce alla minimizzazione della gravità di quanto avvenuto, relegandolo ad un contesto di scherzo;
- sottolineare la corresponsabilità della donna negli eventi determinata dall’assunzione di alcol -“bevendo al pari degli altri”– rinforza lo stereotipo di genere per cui il valore personale femminile passa esclusivamente dall’adozione di un comportamento sociale monastico ed irreprensibile;
- il parere soggettivo e discrezionale dei Giudici circa l’aspetto fisico della vittima è diventato elemento probatorio nel Processo e assolutivo degli imputati.
Questo tipo di victim blaming risponde agli stessi criteri dell’oggettivazione sessuale del corpo femminile per cui la donna attraente deve rispondere ad un modello culturalmente sancito e, soprattutto, per cui le donne non attraenti non possono essere vittime di violenza sessuale.
In terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione ha annullato il verdetto ed ha ordinato di ripetere il Processo per “Vizi di legittimità”.
Alcuni esempi nella narrazione giornalistica
È possibile rilevare frequenti fenomeni di victim blaming anche nella stampa attuale:
- La rappresentazione della violenza può essere offuscata con termini quali “liti coniugali” o “tragedia familiare” oppure proposta non come un atto deliberato ma come una reazione a scelte o atteggiamenti della donna. Talvolta vengono veicolate immagini di uomini semplici, ingenui, la cui violenza viene provocata esclusivamente da un inganno subito, creando un certo grado di inconsapevole alleanza con l’autore del reato. Questi tipi di rappresentazione capovolgono la responsabilità della violenza e ritraggono situazioni in cui l’uomo diviene vittima di sentimenti ed emozioni che non riesce a contenere.
- La rappresentazione delle violenze proposta attraverso fatti come avvenutivi:
- “Parolisi uccise Melania per un rapporto sessuale negato” (Il resto del Carlino, 3 gennaio 2013).
- “Disperato, sconvolto dalla rabbia, ma soprattutto illuso e disilluso dai tradimenti e dalle riappacificazioni con la moglie, così il cinquantenne Javier Napoleon Pareja Gamboa ha finito per uccidere Angela Coello Reyes, per tutti Jenny” (Il Corriere della Sera, 14 marzo 2019).
- Le colpevolizzazioni dirette alle donne vittime di violenza, descritte come figure femminili ingenue, incapaci di valutare la situazione, sopraffatte dai sentimenti che, in virtù di queste debolezze, divengono responsabili dei maltrattamenti subiti
- “L’errore di lei? Ricalca quello commesso da tante altre donne uccise per mano del marito: l’amore ingenuo, il cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, la vergogna e il terrore di ribellarsi” (Libero Quotidiano, 12 giugno 2017)
Victim blaming: quali conseguenze?
Episodi reiterati di victim blaming portano conseguenze sia sulla persona che subisce direttamente la vittimizzazione secondaria , sia a livello socio-culturale attraverso il rafforzamento degli stereotipi di genere e dei bias legati alla violenza sulle donne. L’attribuzione di biasimo e colpa alla vittima influenza le reazioni dei contesti e delle relazioni di prossimità della vittima stessa:
- le donne sperimentano l’impotenza ed aumenta la probabilità di incorrere in abuso di sostanze, depressione, sintomatologia post-traumatica e auto-biasimo.
- la vittimizzazione secondaria alimenta spesso quei sentimenti di auto-colpevolizzazione che le donne esperiscono all’interno delle relazioni violente e scoraggia dal denunciare. Le donne, infatti, temono di essere ulteriormente stigmatizzate o compromesse ed evitano di rendere pubbliche le proprie storie, anche se questo comporta rinunciare alla tutela e al riconoscimento legali (Perilloux, Duntley & Buss, 2012).
- la colpevolizzazione della vittima comporta inevitabilmente un’assoluzione collettiva dell’autore delle violenze, o comunque una minimizzazione della gravità degli agiti violenti. Questo circolo vizioso innesca una serie di ulteriori conseguenze a livello sociale, che comprendono una diminuzione del supporto offerto alle donne, non solo da parte delle reti di supporto informali (familiari ed amicali), ma anche a livello istituzionale.