Fermo restando che comprendere non significa in alcun modo giustificare, esistono in letteratura diversi approcci e teorie atte a spiegare la natura del pregiudizio. Di fatto, ognuna di esse coglie un aspetto peculiare di questa complessa realtà, tanto da poter giustificare la massima di Einstein “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”.
L’approccio psicodinamico
Partendo dalla necessità di dare una spiegazione alle atrocità della Germania nazista, negli anni ’50 Adorno e collaboratori condussero alcuni studi su Americani adulti scoprendo che l’ostilità verso gli ebrei spesso poteva coesistere con l’ostilità verso altre minoranze etniche. Nel loro libro The Authoritarian Personality teorizzarono che lo stile genitoriale autoritario, basato su punizioni, percosse e minacce, promuoveva nel bambino un rigido conformismo alle regole, con la conseguente sottomissione all’autorità. In più, ritenevano che questo stile coercitivo attivasse nel bambino dei meccanismi di difesa che lo liberavano dai suoi impulsi aggressivi proiettandoli all’esterno, ed esempio contro le minoranze etniche. In parole più semplici, il pregiudizio non era visto come un fenomeno intrinseco alla mente umana ma un effetto causato da un certo tipo di educazione. Tale approccio è stato criticato sia per la sua specificità storica, sia perché sottostimava l’importanza della situazione sociale immediata nel processo di formazione degli atteggiamenti. Di fatto, si stava ormai avvalorando la tesi per cui sono le norme sociali, più che le dinamiche individuali di personalità, a determinare i livelli complessivi di pregiudizio nei diversi gruppi.
Più recentemente, Altemeyer ha favorito un’evoluzione a tale prospettiva per cui l’autoritarismo non è più visto come un tratto di personalità ma un insieme di atteggiamenti relativi a particolari oggetti sociali. Ha inoltre identificato tra gli individui con più pregiudizi nella nostra società quelli che presentano alti livelli sia nell’orientamento alla dominanza sociale che nella personalità autoritaria: sono persone che si battono per lo status spesso attraverso la manipolazione, sono spesso sia dogmatici che etnocentrici e possono diventare leader di gruppi basati sull’odio. Per quanto l’autoritarismo e l’orientamento alla dominanza sociale possano coesistere, il primo appare più legato alla necessità di sicurezza e di controllo, mentre il secondo allo status del proprio gruppo.
L’approccio dell’apprendimento sociale
Sempre intorno agli anni ’50, nel libro The nature of prejudice Allport spiegava che l’uomo ha una predisposizione naturale al pregiudizio, legata alla tendenza a generalizzare, concettualizzare e categorizzare l’esperienza del mondo per poterla semplificare. Riconosceva anche quanto fosse importante l’apprendimento umano; secondo lui infatti “il bambino è gratificato dalla virtù del gruppo a cui appartiene” (p. 42), ovvero assimila la tradizione della propria famiglia, come anche il patriottismo e l’orgoglio di razza. In più, poiché i familiari del bambino non estendono i loro confini al di là dell’appartenenza al circolo familiare, cittadino e nazionale, nemmeno il bambino stesso riuscirà ad ampliare il suo senso di appartenenza: “[…] con la scoperta dei valori accettati nell’ambiente in cui vive, il bambino si sente vincolato ad accettare le opinioni di questo circa ogni altro gruppo nazionale.”. Nonostante l’atteggiamento di parzialità verso il proprio gruppo di riferimento non implica necessariamente l’ostilità verso altri gruppi, spesso la condizione di integrazione e solidarietà non è raggiunta, soprattutto quando altri sembrano minacciare o mettere in discussione le proprie abitudini.
L’apprendimento sociale non deriva solo dalla famiglia, dai pari o dagli amici, ma anche dalle istituzioni sociali quali scuole, governi e media, i quali possono rafforzare il pregiudizio sia con politiche esplicite che implicite. In particolare, Ford ha trovato che nei telefilm la scena di un Afroamericano che progetta e compie un delitto può far sì che un altro Afroamericano con l’accusa di aggressione appaia più colpevole, per cui i media possono anch’essi rinforzare gli atteggiamenti culturali prevalenti.
All’interno della teoria dell’apprendimento sociale è presente la teorizzazione della connotazione linguistica, la quale si focalizza sui bambini di età prescolare. Williams e Edwards ipotizzarono che, nella cultura statunitense, il pregiudizio etnico si sviluppasse in parte dal significato connotativo dei nomi dei colori. Gli Autori notarono, infatti, che i bambini Americani bianchi in età prescolare tendevano a valutare come positivo il colore bianco e come negativo il colore nero.
L’approccio cognitivo
Le teorie sullo sviluppo cognitivo concordano, congiuntamente alle teorie dell’apprendimento sociale, sul fatto che il pregiudizio derivi da processi psicologici normali e fondamentali. Tali teorie ritengono che il pregiudizio etnico sia influenzato dalla capacità di processare le informazioni provenienti dai gruppi per cui, se il pregiudizio è inevitabile nei bambini piccoli che inizialmente sono focalizzati su loro stessi e tendono ad esagerare le differenze tra i gruppi, esso dovrebbe ridursi quando vengono acquisite tali capacità, ovvero verso i 7 -11 anni. Sebbene spesso ciò non avvenga, alcune ricerche hanno supportato questa teorizzazione.
Aboud e Doyle e hanno trovato che la maggior parte dei bambini tra i 2 e i 4 anni circa assegna attributi più positivi e meno negativi al proprio gruppo di appartenenza (ingroup) rispetto agli altri gruppi (outgroup) ma tale tendenza declina attorno a circa 7 anni grazie – in parte – alle acquisizioni di alcune abilità socio-cognitive (es. la classificazione degli altri su molteplici dimensioni, la percezione di somiglianze tra membri di gruppi differenti, la percezione di differenze entro il proprio gruppo). Dopo la maturazione delle abilità di sviluppo cognitivo, i bambini non necessariamente tendono a usarle: l’uso differenziale di queste abilità giustifica le differenze interindividuali.
Gli approcci dello sviluppo socio-cognitivo
Tali approcci combinano sia gli aspetti riguardanti le influenze del contesto immediato e di quello più generale, che gli aspetti riguardanti la persona, quali l’età e le abilità cognitive.
Tajfel e Turner osservarono che l’uomo ha la tendenza alla categorizzazione per via della sua utilità a identificarsi con certi gruppi coi quali condivide il senso di appartenenza e di identità comune (ingroup), e a confrontarsi con altri gruppi (outgroup) dai quali si percepisce distante, mantenendo una propensione verso il proprio gruppo. Il processo di identificazione con l’ingroup, quindi, stimola negli individui il bisogno di raggiungere o mantenere un’identità sociale positiva: questo li spinge ai fenomeni di favoritismo per l’ingroup (bias dell’ingroup) e di denigrazione dell’outgroup.
L’approccio evoluzionistico considera sia il pregiudizio che la discriminazione come inevitabili e difficilmente modificabili. Fishbein suggerisce che il pregiudizio, pur risalendo all’epoca dei nostri antenati, permane tutt’oggi in quanto ebbe successo nell’evoluzione dell’uomo. Tale meccanismo permise la sopravvivenza delle tribù e la successione delle generazioni nel tempo, attraverso la trasmissione genetica: questo spiega il favoritismo rivolto agli individui che sono geneticamente simili tra loro. Un altro meccanismo menzionato dall’autore riguarda la trasmissione delle informazioni dalle figure autorevoli ai figli, la quale incoraggia i bambini ad accettare senza discutere ciò che viene detto, incluse le informazioni circa i membri dell’outgroup. Un ultimo meccanismo riguarda l’ostilità che gli umani hanno sviluppato nel proteggere i loro piccoli, soprattutto le femmine, e le proprie risorse dagli stranieri. In conclusione, Fishbein ritiene che il pregiudizio sia strettamente connesso allo sviluppo dell’identità di gruppo avvenuto circa 3 o 4 ere fa. Questo approccio è stato molto criticato perché sembra voler condonare il pregiudizio etnico per via del suo essere innato.
Le “nuove” forme di pregiudizio
Nel corso degli anni l’espressione del pregiudizio nelle culture occidentali è diventata sempre meno diffusa in quanto l’esprimere apertamente un pregiudizio non è considerato socialmente desiderabile. Infatti, all’inizio degli anni settanta, gli psicologi sociali nordamericani notarono che il pregiudizio etnico stava assumendo forme sempre più sottili e nascoste. Pettigrew e Meertens hanno concettualizzato il “pregiudizio manifesto” come quello classico, carico di percezioni e di sentimenti ostili, raramente espresso al giorno d’oggi nelle società moderne, e il “pregiudizio latente” come una forma moderna di preconcetto espressa in modi socialmente accettabili. Tra questi emergono la difesa dei valori tradizionali, l’esagerazione delle differenze culturali e la negazione di emozioni positive. In particolare, il “pregiudizio moderno” di McConahay è un atteggiamento pregiudiziale caratteristico di individui che, pur non dichiarandosi razzisti, manifestano verbalmente la loro intolleranza verso i crescenti privilegi promossi dalle istituzioni a favore delle persone di colore. Di fatto, “i razzisti moderni sarebbero in preda ad un’ambivalenza che si tradurrebbe in un rispetto solo formale della parità dei diritti di bianchi e neri […]”.