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Disturbo evitante/restrittivo di assunzione del cibo: cos’è e quale trattamento

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID) si caratterizza per un introito di cibo limitato nel volume e/o nella varietà che richiede un intervento terapeutico sia sul piano medico che psicologico.

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID) è una diagnosi recentemente introdotta nel 2013 all’interno del DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – 5), in particolare nella sezione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. La letteratura scientifica è ancora scarsa e non mostra risultati definitivi tuttavia, secondo i più recenti studi, l’ARFID risulta essere più comune in soggetti di età compresa tra gli 11 e i 14 anni. Rispetto a chi soffre di anoressia o bulimia nervosa, le persone con disturbo evitante/restrittivo nell’assunzione di cibo tendono ad essere più giovani e di sesso maschile, oltre a presentare una maggiore durata dei sintomi e ricoveri più lunghi per raggiungere la stabilizzazione clinica.

ARFID: cos’è e come si caratterizza

ARFID si caratterizza per l’evitamento o la restrizione nell’assunzione orale di cibo, nel volume e/o nella varietà, che comporta l’incapacità di soddisfare i requisiti della nutrizione o di ottenere un sufficiente apporto energetico. Possono dunque essere presenti:

  • Significativa perdita di peso
  • Deficit nutrizionale
  • Dipendenza dall’alimentazione parenterale o da supplementi nutrizionali orali
  • Marcata interferenza con il funzionamento psico-sociale

È bene chiarire che ARFID non riguarda una mancata disponibilità di cibo o digiuno né comportamenti evolutivi normali come l’essere “schizzinosi” quando si è ancora piccoli, non è legato a un’eccessiva preoccupazione per il peso e/o la forma del corpo, né tantomeno è concomitante a fattori medici o a disturbi mentali.

Cosa spinge dunque le persone con ARFID a evitare alcuni cibi?

ARFID: i meccanismi coinvolti

Sono tre i meccanismi coinvolti in questo disturbo:

  1. Ipersensibilità sensoriale degli alimenti (aspetto, colore, odore, consistenza, temperatura o gusto). Tale sensibilità può portare la persona a evitare alcuni cibi e a sviluppare timori di provarne di simili. Questa tipologia di evitamento si sviluppa solitamente durante la prima infanzia ed è fortemente correlata con l’emozione di disgusto. Un’ipotesi suggerisce che alla base potrebbe esserci un’anomalia biologica legata alla percezione del gusto che causerebbe una risposta di attivazione molto elevata a odori e sapori non familiari.
  2. Timore di conseguenze nell’alimentarsi (es. vomito, mal di pancia, soffocamento). Chi soffre di questo disturbo può aver subito esperienze traumatiche legate al cibo e successivamente può aver iniziato ad evitarlo per non rivivere quanto accaduto. In generale, sono persone che hanno un’ansia di tratto molto elevata.
  3. Mancanza di interesse per il cibo o per il mangiare in generale che può portare a una dieta limitata con conseguente perdita di peso. Tale mancanza di interesse potrebbe essere associata a un’alterazione dei centri di regolazione dell’appetito che può indurre bassi livelli di fame.

Emozioni e cognizioni negative legate al cibo possono portare a una restrizione alimentare che, a sua volta, non permette di fare esperienze diverse e positive con il cibo, rinforzando inevitabilmente questo circolo vizioso.

ARFID: quale trattamento?

Il trattamento viene personalizzato sulla base della sintomatologia, la gravità del quadro, il peso, le condizioni cliniche, l’età, il grado e il tipo di coinvolgimento del caregiver. L’approccio multidisciplinare è spasso indicato in pazienti di giovane età con alta gravità e complicanze mediche.

In primo luogo è necessario un intervento medico che punti a stabilizzare le condizioni organiche che mettono a rischio la vita della persona; queste possono essere conseguenza diretta del disturbo o legate a condizioni mediche concomitanti. Successivamente è necessario aiutare il paziente a ristabilire l’equilibrio nutrizionale, tramite sondino nasogastrico e/o aumentando gradualmente quantità e varietà dei cibi attraverso interventi dietistici e nutrizionali. Talvolta può essere suggerito anche un intervento farmacologico.

A fianco di tutti questi interventi è fondamentale l’apporto della psicoterapia, o diretta al paziente o al nucleo familiare. Per quanto riguarda la prima, la maggior parte degli studi indica una buona efficacia della terapia cognitivo-comportamentale. Sui familiari vengono effettuati prevalentemente interventi di Family-Based Treatment o di Parent Training. La combinazione della psicoterapia individuale e familiare può essere indicata dal professionista in base alla situazione presentata.

Se pensi che tu o un tuo familiare abbia questo problema, rivolgiti subito ad un professionista!

Bibliografia

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