Il burnout è una sindrome caratterizzata da una serie di disturbi per la maggior parte assimilabili a quelli da stress prolungato, con in aggiunta il disamoramento per il proprio lavoro e il cinismo nei rapporti interpersonali di natura professionale che ne giustificano il termine (“Burnout” in italiano significa “Bruciato”). Una persona in burnout si trova a vivere incertezza per l’ansia provata e frustrazione per il sentirsi sempre più lontana dagli obiettivi iniziali. Ciò rende penosa la situazione lavorativa oltre ad avere un impatto sulla salute (es. inappetenza, insonnia, stanchezza ingiustificata, cefalea, gastrite…).
Sebbene la sindrome da burnout si sovrapponga a quella di stress per i disturbi appena citati, se ne differenzia invece per i meccanismi di difesa: nel caso dello stress la persona cerca rilassamento e riposo, mentre nel caso del burnout tende a rifugiarsi nel cinismo. Tali meccanismi rischiano di rafforzare e materializzare idee e punti di vista irrazionali sulla situazione (es. “Il fatto che io continui a soffrire di stress o di burnout, nonostante i miei sforzi, è la prova che la causa dei miei mali è esterna: i colpevoli sono gli altri, su cui io ho scarso o nessun controllo”.), attivando così uno stato di ansia perdurante senza soluzione. Tale impotenza appresa diventa tanto più radicata quanto più motivati e frequenti sono i tentativi di migliorare le condizioni e i risultati del proprio lavoro, e ugualmente evidenti sono stati gli insuccessi e i fallimenti dovuti all’insufficienza delle risorse disponibili e alla ingenuità (a volte presunzione) di potervi ovviare rapidamente, grazie all’iniziativa personale e alla collaborazione delle persone coinvolte.
Gli stadi del burnout
Edelwich e Brodsky hanno identificato quattro stadi progressivi che caratterizzano l’evoluzione del burnout.
- Stadio dell’entusiasmo. Le persone sono motivate all’esercizio della propria professione scelta per ragioni differenti ma spesso alimentate dalla “mistica professionale” (vd status professionale considerato eroico e affascinante, sull’onda di immagini spesso idealizzate dai mass media). In tal senso, le persone percepiscono ed esaltano esclusivamente i lati positivi della professione, diventando totalmente dipendenti dal lavoro e poco consapevoli delle difficoltà.
- Stadio della stagnazione. Dopo una prima “luna di miele”, le persone impattano con l’esperienza che i risultati del proprio impegno lavorativo sono talvolta incerti, aleatori e difficili da cogliere. Questo porta a uno smorzamento dell’entusiasmo e all’emergere di sentimenti di noia e preoccupazione per la propria carriera. In altre parole, quella che all’inizio era una professione, o in alcuni casi una missione, diventa un lavoro come un altro.
- Stadio della frustrazione. Emergono rabbia e delusione per l’eccessivo scarto tra le aspettative e la realtà, insieme alla triste consapevolezza che i propri ideali poco hanno a che vedere con i reali bisogni di coloro a cui è rivolto il servizio. Ne consegue un senso di inutilità e di vuoto, insieme a una percezione crescente di impotenza.
- Stadio dell’apatia. Come esito finale, si sviluppa disimpegno emotivo-affettivo nei confronti della propria condizione professionale frustrante. È questo lo stadio del burnout vero e proprio. Scompare il desiderio di aiutare gli altri, l’atteggiamento di fondo è rassegnato e infelice, le aspettative si abbassano ulteriormente: dall’empatia iniziale si giunge all’apatia, con generalizzazione anche alla sfera privata.
Le teorie alla base del burnout
In letteratura, i costrutti sono almeno due:
- burnout come esito di situazioni oggettive stressogene;
- burnout come esito di processi interni all’individuoche non sa o non vuole assumersi la responsabilità dei propri comportamenti per una sorta di impotenza appresa.
Il primo è il più diffuso grazie ai lavori di Christina Maslach, studiosa internazionalmente nota per aver proposto la prima scala di misura del fenomeno, il Maslach Burnout Inventory. Dai suoi studi il burnout è costituito da tre dimensioni:
- Esaurimento emotivo. Sensazione di aver esaurito le proprie risorse emotive (vd sensazioni di svuotamento, mancanza di energie per affrontare un nuovo giorno di lavoro o di un altro individuo in difficoltà).
- Depersonalizzazione. Distacco, ostilità, freddezza, cinismo (vd sottrazione dal coinvolgimento, limitando la quantità e la qualità dei propri interventi professionali, fino all’evasione).
- Ridotta realizzazione professionale. Declino del senso di competenza e produttività sul lavoro (vd inadeguatezza professionale).
La percezione di richieste lavorative elevate (sia in termini quantitativi che qualitativi) e di scarse risorse personali e sociali (controllo, autonomia, sostegno sociale) per far fronte alle richieste innesca l’esaurimento emotivo. La depersonalizzazione può diventare una strategia disfunzionale nell’affrontarla.
In particolare, dai suoi studi emerge una correlazione tra alcune variabili relative al contesto e altre riferite alle caratteristiche degli operatori o del tipo di utenza dei servizi:
- la struttura organizzativa: la struttura del lavoro di gruppo, il ruolo delle singole professioni; i modelli operativi e la normativa di riferimento; la leadership; la rete di relazioni all’interno dello staff; la supervisione; le strategie e le procedure o protocolli operativi.
- i fattori individuali: l’età; il sesso; la condizione anagrafica; il titolo di studio; il tipo e la durata dell’esperienza professionale; la motivazione professionale; la presenza di stress; la soddisfazione professionale.
- i fattori storici e culturali.
In tal senso, il problema dello stress lavorativo riguarda le istituzioni e il loro obbligo di predisporre condizioni ambientali che favoriscano punti di vista e comportamenti positivi; per questo si suggerisce una dettagliata analisi delle implicazioni di politica dei servizi, degli aspetti organizzativi e relazionali coinvolti.
Nel secondo costrutto, invece, il burnout viene considerato una forma di impotenza appresa, esito di processi interni all’individuo. In particolare, lo stile di comportamento (es. quello definito di Tipo A, caratterizzato da frettolosità e aggressività) e lo stile di pensiero (es. quello definito di External control, vittimistico e moralistico, che si accompagna a convinzioni del tipo: “Se gli altri si comportassero meglio…”) possono avere un’importanza tale da essere sufficienti a produrre stress e burnout anche in assenza di cause esterne, come accade in chi si preoccupa di questioni oggettivamente irrilevanti o che non dipendono da lui. Tali processi disfunzionali inevitabilmente comportano quell’insuccesso che viene poi preso a scusa della propria frustrazione e del proprio disagio.
Per uscire dalla spirale dello stress/burnout, è necessario riconoscere che lo stress è un punto di vista, ossia un fattore soggettivo. Ecco perché diventa fondamentale la distinzione tra problema oggettivo e problema soggettivo: nel primo caso, le difficoltà non dipendono da noi e non serve preoccuparsi, nel secondo caso è necessario modificare il proprio punto di vista chiarendo quali sono gli obiettivi da perseguire. La definizione degli obiettivi può avvenire per:
- motivi emozionali, ovvero reazioni istintive il cui obiettivo è immediato ed elementare (es. evitare, rifiutare, difendersi e fuggire, o pretendere, aggredire, combattere…).
- motivi razionali, ovvero la ragione, in qualità di sistema motivazionale di ordine superiore, che filtra e orienta le esigenze emotive secondo obiettivi che trascendono la reattività istintiva dell’individuo (es. essere umile, porsi in ascolto, fidarsi…)
In tal senso, si analizzano i processi disfunzionali che alimentano la trappola delle reazioni di stress affinché le persone possano sviluppare i giusti “anticorpi psicologici”.